Era trascorso qualche anno dal suggestivo esperimento di Amaral alla Juventus e fu un connazionale del ginnasiarca brasiliano a piantare nuovamente l’arbusto della zona nel calcio italiano. Il suo nome era Luis Vinicio, era stato un grandissimo centravanti, piedi brasiliani e potenza atletica “tedesca”, trasformatosi al termine della longeva carriera in allenatore rampante. Nella stagione 1973-74 si era cimentato per la prima volta sulla difficile piazza di Napoli e ne aveva tratto a sorpresa, in tandem col giovane manager Franco Janich, un lusinghiero terzo posto. Il suo tentativo tattico fece scalpore e fu portato avanti con ammirevole coerenza e brillantezza di risultati, prima di tramontare subitaneamente al cospetto di spietate esigenze di classifica. E il trauma dovette essere forte, se rimase nella stessa esperienza dell’allenatore una meteora priva di apprezzabile seguito. La sua avventura tattica tuttavia riveste una importanza fondamentale, perché valse a increspare la bonaccia tattica del calcio italiano, dimostrando che nuove vie potevano essere aperte. Tra l’altro, l’idea non nasceva sull’onda dei facili entusiasmi per il calcio olandese, ma aveva radici profonde nella carriera del tecnico. Risalenti al 1968.
Non appena passa, nel giro di poche settimane, dal calcio giocato in Serie A (Vicenza) alla sua prima panchina (Internapoli, Serie C), il trentaseienne Luis Vinicio decide di andare controcorrente. Ama il calcio come spettacolo, secondo la mentalità più genuina della sua terra, e decide di perseguirlo.
Così l’Internapoli dei giovani Chinaglia e Wilson nel ’68-69 sperimenta la zona. «Secondo me la zona resta il tipo di gioco più redditizio» spiegherà qualche anno dopo; «ricordavo i miei tempi da calciatore. C’erano delle marcature strettissime, si giocava per novanta minuti fuori dalla propria zona perché si doveva seguire il proprio uomo ovunque. Veniva così tolta alla squadra la possibilità di esprimersi, di imbastire azioni. Invece, un avversario deve essere controllato dal giocatore più vicino a lui. In possesso dì palla, il discorso è diverso, tutti devono partecipare, mettersi a disposizione affinché la palla giri. Ricordo che in tutte le mie squadre, dall’Internapoli al Brindisi alla Ternana, avevamo un gioco fluido, bello. Ci vogliono giocatori all’altezza, che sappiano marcare e giocare. Inutile fare la zona quando hai uomini poco disponibili. Nel Napoli, al primo anno, non fu possibile, perché il libero era Zurlini: lento, comportava dei rischi. Ma con l’arrivo di Burgnich, impiegato in linea con i difensori, applicammo la zona totale».
Nel 1974 è reduce da un terzo posto, a Napoli Vinicio è considerato una specie di profeta, può dunque azzardare la mossa tattica che gli sta a cuore. Gli danno del visionario, per quel Napoli “strano”, tutto racchiuso in trenta metri, accorciato come zona comanda; e soprattutto per le tempeste cui espone il povero Tarcisio Burgnich, costretto a 35 anni a trasformare il suo compassato e prudente modo di fare il libero in interpretazioni audaci, da costruttore di gioco pronto alle avanzate, e il portiere Carmignani, destinato a trovarsi spesso in balia degli attaccanti avversari che hanno superato la linea difensiva. Le prime brillanti settimane di campionato, però, premiano la squadra e Vinicio viene applaudito come geniale innovatore. Il tecnico ci prende gusto, il suo amore per la battuta paradossale si sposa con la voglia e la necessità di stimolare i tifosi e arriva a ottobre a sfidare l’asfittica Nazionale di Fulvio Bernardini. Contrariato per la tenacia con cui il Ct continua a ignorare i suoi giocatori nonostante le ottime prestazioni, il tecnico afferma che il Napoli è pronto a sfidare a singolar tenzone la squadra azzurra: se il Napoli batterà la Nazionale, il tecnico pagherà un banchetto per tutti a Borgo Marinaro.
La favola inciampa e si spezza il 15 dicembre 1974, sul clamoroso 6-2 che in contropiede la Juventus di Parola infligge agli uomini di Vinicio al San Paolo, subito dopo la loro eliminazione dalla Coppa Uefa da parte del Banik Ostrava. «Circa la tattica reinventata da Vinicio» gongola allora Gianni Brera, italianista di ferro, «ho già avuto occasione di dire che è cervellotica e pericolosa: qualcuno si è sdegnato: subito dopo è scesa la Juventus a Napoli e ha vinto 6-2. Era la stessa Juventus che aveva penato a battere la Roma e l’Inter. Il Napoli non ha ritenuto di doverla rispettare e le sì è spalancato addossando i difensori ai centrocampisti: nelle molte pertiche libere davanti a Carmignani, gli juventini si sono avventati a turno creando come minimo dodici palle gol. Allora Vinicio ha ammesso di essere ancora giovane, come tecnico, e di dover imparare molte cose. E sembrato a tutti pieno dì umiltà e saggezza. Si è poi saputo che, prima di dichiararsi tanto umile, il brasileiro aveva tentato di scagionarsi addossando ai centrocampisti la responsabilità di quella Waterloo. I centrocampisti gli hanno risposto per le rime. Se rimarrà ancora in sella, converrà a Vinicio di mettere Burgnich al suo posto e di giocare come cercano tutti in questa valle di lacrime, stretti a difesa e larghi in attacco».
Le critiche piovono impietose sul mister del Napoli, osannato fino al giorno prima: si vanta tanto dei trenta metri che recupera con la difesa in linea, ma a che gli serve tutto quello spazio? E come poteva pensare di utilizzare il miglior libero italiano, Tarcisio Burgnich, come uomo di appoggio? Da quel momento in poi, la difesa si fa più prudente e il Napoli recupera il sogno scudetto coltivandolo fino a poche settimane dalla fine. Quando perderà nuovamente lo scontro diretto, finendo secondo alle spalle della Juventus. Con il primato assoluto di gol fatti ma anche un pugno di mosche in classifica. Allora non c’era la Champions League, chi arrivava secondo si doveva accontentare della Coppa Uefa e quel risultato venne considerato uno smacco più che un successo. Vinicio restò ancora una stagione, ma il Napoli sbarazzino e “zonista” duro e puro dell’autunno 1974 non si sarebbe rivisto più.
Né più lo stesso Vinicio riprodusse altrove la piccola utopia di quel modulo: «Con la Lazio» spiegava, cioè col successivo e suo ultimo approdo di grido, «non fu possibile, perché avevo Wilson che giocava venti-trenta metri dietro a tutti. Se si allunga la squadra, è un suicidio fare questo tipo di gioco. Bisogna giocare contratti, corti, per correre meno pericoli e non lasciare spazio agli avversari. E così si creano anche più difficoltà a chi deve offendere perché la marcatura è immediata. Non c’è dispendio di energie: gli uomini agiscono in pochi metri. Il pressing? E fatto dì scatti brevi, non lunghi. Il libero che diventa anche marcatore deve saper comandare e dare tranquillità e distanze. E vorrei sottolineare che Sacchi è arrivato alla esasperazione del pressing. C’è da discutere sul gioco del Milan: nella maggior parte dei casi i rossoneri ricorrevano al fallo perché andavano in pressing tre-quattro uomini. Le mie squadre stavano sempre nel lecito, un uomo solo in marcatura e altri due pronti a intervenire. Raramente il fallo».
Perdute le sue stimmate di innovatore, Vinicio andò incontro a un rapido declino.
Autore: Antonio Vistocco
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